Le sorelle, i fratelli, i nipoti ricordano Don Luigi
La famiglia Longhi era costituta da papà Lodovico e mamma Elda Montali, con i loro figli: Giuseppina, Luigi, Adriana, Pierino, Daniela, Roberto, Maria Teresa e Giovanna (20 anni meno del Don). A Curino incontriamo tre sorelle nel piccolo bar che il padre aprì nel 1986, a 74 anni: un giovanotto, sempre con la voglia di fare, nonostante tutto. Tipico della famiglia, «la malattia di casa», la definisce Adriana che oggi gestisce l’esercizio. Il tratto caratteristico degli emiliani, con le braccia aperte e il cuore in mano, uniti al buon senso di educare all’autonomia. Il sole tiepido primaverile, l’atmosfera familiare, dopo un istante di incertezza, rendono piacevole la chiacchierata anche se è la prima volta che ci incontriamo.
Adriana e Maria Teresa fanno comparse fuggevoli e alterne, perché devono stare dietro il bancone.
«Siamo arrivati qui nel 1955 da Sala Braganza, in provincia di Parma. Papà ci venne per motivi di lavoro e la mamma lo seguì», cominciano a raccontare a pezzi e bocconi guardandosi ogni tanto, completando l’una la frase dell’altra. Giovanna e Maria Teresa, le due più giovani, sono nate a Curino.
Luigi, che allora aveva 18 anni, all’inizio era impiegato con il padre al salumificio Motta (foto). «Abbiamo lavorato tutti fin da piccoli, quasi quasi non se neanche quanti anni ho – commenta scherzosamente Adriana – iniziai quando ne avevo 12. La mamma, che ci svegliava al mattino, trovava sempre Luigi con il libro da messa in mano».
«Fin da bambino, quando eravamo ancora a Parma, lui aveva allestito nel solaio una sorta di cappelletta e cucito le tendine del tabernacolo. Se non andavi a rispondere al rosario, ti sgridava. Quando riusciva a mettere da parte 10 libre di mancia, invece dei giochi, si comprava le statuine di gesso dei santi. In maggio mi mandava per viole… c’era un daffare! Era un disastro, perché bisognava rispondere a tutti i rosari. Lui si vestiva da prete con il camice di mio padre e noi cercavamo di squagliarcela. Il papà lo trovava sempre con la corona sul letto. A 19 anni gli chiese cosa avesse intenzione di fare e lui rispose che lo avrebbe aiutato ancora per qualche tempo, poi sarebbe entrato in seminario».
«Allora vai, non guardare noi – esclamò papà Lodovico – Ma ricordati che se non sarai giusto, ti strapperò il vestito di dosso». Luigi ribatté che non aveva dubbi.
«Così ha cominciato ad Anzano, dal parroco di Como; è stato lì per un qualche tempo, poi è andato a Vercelli e da Vercelli a Rivoli. Ha sofferto molto per gli studi. Lui era per la carità».
Fu ordinato sacerdote nel 1970, a Roma, da Paolo VI.
«Celebrò la prima messa a Rongio, perché era molto legato a don Vittorino Barale. Poi annunciò di voler partire per il Mato Grosso. E non volle regali, ma soldi da portare via». Una sorella fa eco all’altra per aggiungere un particolare, afferrare un ricordo sfuggente, svelare qualcosa di inedito custodito a lungo nel cuore.
«Aveva sempre voglia di fare qualcosa per gli altri; era molto sereno e sminuiva le difficoltà: ogni cosa per lui era possibile. Nelle persone per le quali si spendeva vedeva un avvenire, un futuro. Io andavo spesso in vacanza con lui e mi ricordo che tendeva a nascondere i problemi dei suoi ragazzi per non farli apparire diversi. Alla sera, dopo cena, uscivamo tutti insieme per la passeggiata e siccome con noi c’era un giovane in libertà vigilata, doveva ogni volta portarlo a firmare in questura. Nessuno si accorse mai di niente perché trovava sempre il modo di dirottare la compagnia da un’altra parte in modo del tutto naturale, oppure lo mandava da solo. Delicatezze che ti fanno capire quanto sapesse amare».
C’era in don Luigi una serenità di fondo che rassicurava. «E i suoi ragazzi erano pietre preziose, come i figli per noi. Perciò nessuno era tenuto a conoscere il loro passato, per non lasciarsi condizionare nelle relazioni. E poi quella capacità di pensare a tutto. Quando si mangiava fuori insieme, stando via per un’intera giornata, organizzava ogni cosa al meglio. Come una mamma e un papà insieme. E si divertiva con i ragazzi: correvano sulla spiaggia, rideva. Le vacanze più belle le ho passate con lui. Sono così contenta di esserci andata…».
Immagini che scorrono come in un film proiettato all’orizzonte. Lo stesso orizzonte che don Luigi scruta in quella foto che lo rivela com’è. Com’era. Capace di guardare lontano, oltre l’azzurro. In alto.
«Nonostante mille problemi, non si dimenticava mai di un compleanno o di chi era in difficoltà. E la sua famiglia, noi, ci portava nel cuore. Non si lamentava mai delle fatiche, delle sofferenze. Quando venivamo a saperlo e gli chiedevamo qualcosa, sdrammatizzava. Era invece attento alle difficoltà altrui e sapeva farsi prossimo. Era così. Continuiamo a ripetere le stesse cose. Sempre. Una mamma che ha perso il figlio mi ha confidato che da 18 anni, nell’anniversario del lutto, il suo telefono squillava e lei si sentiva dire da don Luigi una parola di consolazione. Quando se n’è andato, incontrandomi, ha detto con tristezza: “Quel giorno lì non suonerà più”. Per lui erano tutte cose naturali. E’ più difficile per noi raccontarle che per lui farle. Del resto non ci ritroveremmo qui, a distanza tempo, a riparlarne. Per noi tutti i giorni è un continuo ricordarci di lui… ci ha lasciato un’eredità che parla».
Trovandosi a casa di persone che lo conoscevano, Daniela ha notato che c’era la sua foto da qualche parte, appesa al muro o appoggiata su un mobile. «Qui ce l’hanno tutti: a Curino, a Pray, a Rovasneda, a Brusnengo…».
« E’ uno di famiglia».
«Forse proprio perché era semplice».
«La sua grandezza è stata la sua naturalezza, la sua mancanza di critica. E’ stato un prediletto».
«Mia figlia – aggiunge Daniela – afferma che uno così nasce ogni 200 anni».
La vita dei fratelli Longhi è stata ricca di sentimenti e di accoglienza.
«Io ero piccola e avevamo difficoltà economiche, ma quando Luigi arrivava con i suoi compagni di seminario, c’era sempre qualcosa per tutti. La mamma aveva acquistato le pentole grandi, da ristorante. I nostri genitori sono stati sempre ospitali, sia per il mangiare che per il dormire. Per loro era una cosa normale».
La gioia del dono si mescola all’amarezza del rimpianto.
«Adesso ci accorgiamo che tutto questo ci manca… che don Luigi ci manca… Gian Mario Ceridono e Franco Givone stavano qui con noi… don Mauro Stragiotti, don Luigi Comin… ci hanno prese in braccio».
Come avete vissuto la vocazione di vostro fratello?
«E’ stata così naturale: si andava a messa tutti insieme, poi lui entrò in seminario; veniva a casa ogni tanto. Luigi non osava chiedere di entrare in seminario, perché non avevamo risorse, ma i nostri genitori, trovandolo spesso addormentato sui libri, stremato, gli dissero: se questa è la tua strada non preoccuparti per la famiglia. In seminario non sono mancate le difficoltà, soprattutto per il latino, ma non era quello che scandiva la sua vita».
Anche i cugini si erano accorti della sua passione per il Signore: «Aveva la mania della preghiera: allestiva altarini nelle soffitte e reclutava tutti al momento buono. Uno zio si chiedeva… da chi avesse mai preso».
Poi partì per il Mato Grosso.
«Se ne andò convito ed entusiasta, senza sapere bene cosa lo aspettasse. Quando il vescovo lo richiamò a Vercelli, appariva distrutto: piangeva per il dispiacere di aver lasciato laggiù quelle persone. Era tornato a casa senza più nulla, nemmeno i capelli: ogni lebbroso gliene aveva chiesto un ciuffo per ricordo. Aveva solo gli abiti che indossava, non più orologio né catenina della mamma… Credeva nella Provvidenza e ci veniva spontaneo aiutarlo. A casa nostra era così».
«Io ho una figlia sola e mi sembra già un’impresa incredibile quando devo organizzare qualcosa confessa Daniela – Non so che pregio avessero i miei genitori: non si sono mai fermati a chiedersi “come faccio?”. La loro generosità è stata una cosa incredibile. Ancora oggi mi stupisce. Durante il periodo di seminario Luigi portava a casa tutti: si improvvisavano le camerate con i materassi i per terra. Io ero piccola e dovevo darmi da fare, lavare un sacco di piatti, ma era bellissimo. I miei ce l’hanno proprio insegnato e noi l’abbiamo assorbito: il rispetto delle persone, anche del mendicante. La trovo una cosa stupenda. La mia famiglia era stupenda: mai disprezzare nessuno, quel pudore di non esprimere mai giudizi. Non se sia sempre giusto, ma il pudore di non giudicare è quello che ho imparato dai miei genitori, che me l’hanno insegnato con l’esempio, perché il tempo di dialogare non c’era».
Maria Teresa incalza: «Abbiamo assimilato questi valori, almeno speriamo, guardando loro». E don Luigi ha tradotto quei valori in una scelta di vita. «Anche dei suoi ragazzi non abbiamo mai saputo nulla, a meno che altri non ce lo rivelassero. Nemmeno lui chiedeva troppo a loro. Faceva il bene perché sentiva di farlo. E ci riusciva. Quando si diffondeva una voce, minimizzava: quelle cose lì cosa vuoi che siano, adesso ormai è tutto a posto… Ci raccontava tante bugie, bugie positive, di convenienza, di rispetto».
«In occasione di qualche ricorrenza gli allungavano una bustarella: comprati qualcosa per il compleanno. Ribatteva puntualmente che non aveva bisogno di nulla. E i soldi finivano nel solito calderone. A volte, guardandolo, notavo delle espressioni così ingenue… era un puro… tanto puro da essere disarmante».
«Ci raccontava che durante la guerra la mamma lo copriva con il suo corpo e teneva vicini gli altri bambini, senza pensare di chi fossero figli perché, precisava, “nemico e amico in quelle condizioni non fa differenza”. E lavava i vestiti ai morti perché fossero dignitosi».
«Così, quando è morto il papa in ospedale, don Luigi lo ha lavato e profumato con una dedizione più che filiale. E penso che l’abbia fatto a tante altre persone».
I nipoti cosa pensano dello zio prete don Luigi?
«Mia figlia Chiara – risponde pronta Daniela – l’ha sempre considerato una persona speciale e le piaceva parlare con lui. Nell’ultimo periodo in cui era in ospedale è venuta a casa una settimana apposta per stare con lui. “Lo zio – ripeteva – è qualcuno al di sopra di tutti noi”. Quando è morto, mi sono fatta un sacco di domande, mi sono chiesta perché non ci avesse detto qualcosa di più su di lui, sulle sue condizioni… E Chiara ha ribattuto che se lo zio aveva agito così era perché voleva che fosse così, perché lui era al di sopra di tutti noi».
Maria Teresa ha due figli di 20 e 15 anni; uno di loro ha scelto don Luigi come padrino, ma entrambi gli erano profondamente affezionati. «Erano molto affiatati loro tre. Del resto era impossibile non esserlo perché quando organizzava una gita ci esortava: portate i bambini. Siamo andati a Roma per la benedizione della campana della vita ed è stata un’esperienza che li ha segnati, perché li ha presi sotto le sue ali e li ha portati vicino al Papa».
«Tutte le volte che andava via scriveva una cartolina e Chiara riceveva ogni anno una cartolina per il suo onomastico».
«Mio marito è andato in pellegrinaggio a Gerusalemme con don Luigi e ha partecipato allo messa nel deserto. Non riesce neanche a raccontarlo senza commuoversi».
«La prima volta che mi invitò in ferie con lui – riprende Daniela – mi disse che i suoi ragazzi avevano anche bisogno di divertirsi, non solo di mangiare e lavorare. Un anno gli regalarono un pullmino da rottamare. Lo rimise in sesto e si partì per le ferie. Poco dopo si ritrovarono a piedi e spesero per il furgone tutto ciò che avevano, rimanendo all’asciutto. Anche come cibo. Ma lui confidava serenamente nella Provvidenza e si girava dall’altra parte mentre i suoi “figli” rubacchiavano pomodori. La vacanza la fecero comunque…». I ricordi si affastellano appena sussurrati, per i timore si vederli scomparire troppo in fretta. «E poi nel casermone dell’Aravecchia c’erano le zingare che sapevano come si tirava avanti nella comunità, con quel poco che c’pera. Così, quando andavano a rubare nei pollai… gli regalavano una gallina. E lui perdonava dicendo: eravamo tutti uguali. Qualsiasi cosa condivisa è stata bella. C’era entusiasmo… e quando si stava insieme, tutti per lui erano fratelli, anche i più giovani. E ancora così e ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo su don Luigi…».